di Gianni Bessi

Pubblicato su Il Messaggero.it del 18 maggio 2015

 

Quanto dichiarato dalla presidente di Eni, Emma Marcegaglia, cioè che «il futuro di Eni sarà sempre più quello di una oil&gas company, con la riduzione di chimica e raffinazione» mi ha colpito.

Sono certo che la presidente di Eni non ha fatto questa affermazione a cuor leggero, ma ugualmente mi pare che il disimpegno della più grande industria italiana da un settore strategico come la chimica sia una mossa che deve fare discutere – almeno chiunque si interessi con passione di economia e della ‘dimenticata’ ‘politica industriale’.

Provo a mettere in fila qualche elemento per questa discussione. Intanto la presenza della chimica nella vita quotidiana delle persone, perché è ‘con noi’ in ogni momento della giornata, da quando saliamo in auto o utilizziamo qualche utensile in cucina o quando facciamo un regalo a nostro figlio.

Nonostante questo, il settore chimico sta subendo da alcuni anni campagne ostili, il cui contenuto è riassumibile in un generico ‘la chimica non è un’attività sostenibile, anzi produce pericoli per la salute’. Eppure non esiste nessun altro comparto produttivo che abbia investito così tanto in innovazione e ricerca, puntando a sviluppare nuovi prodotti ma anche processi produttivi più sostenibili. In questo momento di difficoltà sarebbe utile riaprire un confronto sulla chimica italiana, soppesando con attenzione gli aspetti positivi e quelli negativi. E senza dimenticare che un’economia ‘matura’ come quella italiana non può fare a meno di una presenza forte nei settori industriali più importanti.

Ritengo che l’Italia non possa fare a meno di un settore chimico moderno: per dimostrarlo parto dal caso che conosco meglio, quello di Ravenna, dove esiste un distretto chimico tra i più antichi d’Italia, nato attorno all’impianto Petrolchimico Eni. Il distretto è composto da 15 società, nazionali e internazionali, fra cui, oltre all’Eni, basta citare la Cabot, la Mapei del presidente di Confindustria Squinzi, Yara, la Polynt, che producono miliardi di fatturato e danno lavoro a oltre 2.000 persone, un numero che va triplicato se si tiene conto anche dell’indotto. A Ravenna si producono più di 200mila tonnellate all’anno di elastomeri, gomme sintetiche la cui produzione prevede un alto contenuto di tecnologia, ai quali si aggiungono 140 mila ton/anno di butadiene, materia prima fondamentale per tutte le produzioni petrolchimiche. Dagli stabilimenti ravennati ogni giorno escono prodotti che, direttamente o indirettamente, vengono utilizzati quotidianamente dai cittadini come la colla vinavil.

L’impatto sull’economia locale è quindi considerevole. Anzi sulle economie locali, perché riguarda tutti i territori dove la chimica è una delle attività trainanti: in tutta Italia il valore della produzione del settore è di 54,3 miliardi, il che significa il 10 per cento della produzione totale europea. Siamo, in sostanza, il terzo produttore nel settore chimico del continente. Questo ci aiuta a capire l’importanza di ridisegnare il ruolo della chimica nel nostro Paese, come motore di sviluppo alimentato da ricerca e innovazione. Un passo che tenga conto, ovviamente, dei passi avanti che sono stati fatti nel campo della ecoefficienza delle produzioni: nessuno vuole tornare alla chimica ‘pesante’ degli anni 50, ma a una chimica ad alto valore tecnologico: non dimentichiamo che la ricerca chimica è anche quella che riguarda i farmaci o i prodotti che vengono utilizzati in campo medico. E la ‘chimica verde’, come viene chiamata, è uno dei campi con le più elevate prospettive di sviluppo: l’Italia ha già cominciato a percorrere questa strada con risultati eccellenti.

In questo momento, se Eni si disimpegnasse nel settore si verificherebbe in primo luogo una ripercussione pesante sull’occupazione e sulle economie dei territori: ci troveremmo a fronteggiare un processo di deindustrializzazione da cui sarebbe molto complicato per non dire impossibile tornare indietro. E la perdita sarebbe ingente non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello scientifico, perché la chimica, grazie a una solida attività di ricerca, produce conoscenza che rende disponibile sotto forma di tecnologie e prodotti di uso quotidiano. A cominciare da quelli, per capirci, che contribuiscono al benessere e alla qualità della vita.

Alcune cifre aiutano a comprendere meglio l’importanza di quest’ultimo punto: nella chimica italiana la diffusione dell’attività di Ricerca e Sviluppo è doppia (48 per cento) rispetto a quella dell’industria manifatturiera (23 per cento); ed è persino superiore a quella sviluppata dai settori high tech (44 per cento). E questa attività di ricerca non è svolta solo dai grandi gruppi, ma anche da tante piccole e medie imprese.

In conclusione, gli argomenti che ho cercato di mettere infila per sostenere la tesi che Eni non dovrebbe ‘abbandonare’ la chimica sono gli stessi che permettono di riaprire il ragionamento sul futuro del settore: va ripresa in mano la progettualità, per valorizzarlo ed evitare una sua marginalizzazione. Un passo che va compiuto con una strategia di sistema paese che guarda ai mercati globali per rispondere alle esigenze locali: dobbiamo agire per non perdere le eccellenze produttive sulle quali abbiamo costruito la nostra società del benessere.

Tutto questo ponendoci una domanda: può esistere una ‘chimica italiana’ senza ENI?