Pubblicato su Start Magazine.it il 23 marzo 2019

di Gianni Bessi

Il nord è il palcoscenico di una delle sfide del secolo: la corsa all’Artico. Il circolo polare artico è un luogo strategico sia per la posizione geografica sia per le immense risorse naturali: limitandoci a petrolio e gas parliamo di quasi il 40% delle riserve mondiali.  L’approfondimento di Gianni Bessi, autore di “Gas naturale, l’energia di domani”

Se il confine orientale è la ‘prova generale’ per comprendere se sia possibile finalmente giungere a un’Ue unita politicamente oltre che economicamente, esiste un altro fronte che rappresenta una cartina di tornasole per capire quale sarà il futuro della costruzione europea. C’è bisogno di dirlo? È il confine settentrionale.

Il limes nordico è attraversato da profondi e inediti cambiamenti: il primo, of course, la Brexit, il cui percorso fra poco sarà finalmente concluso… o forse no. Una vicenda che rimanda inevitabilmente al combinato disposto con l’elezione di Trump negli Stati Uniti, che ha rinsaldato l’anglosfera grazie a una rinnovata convergenza tra la Gran Bretagna e la sua colonia di maggior successo.

In realtà la collaborazione tra i due blocchi anglofoni non si è mai interrotta: sono due realtà organizzate e sincronizzate non solo per una condivisione del pensiero mainstream, in economia, nella finanza, nella cultura ma soprattutto a livello di ‘deep State’, cioè di tutto quello che riguarda l’intelligence e la sicurezza nazionale.

E sempre il nord è il palcoscenico di una delle sfide del secolo: la corsa all’Artico. Il circolo polare artico è un luogo strategico sia per la posizione geografica sia per le immense risorse naturali: limitandoci a petrolio e gas parliamo di quasi il 40% delle riserve mondiali. Non è strano che sia in atto una corsa tra le potenze per la conquista delle sue ricchezze e dei suoi spazi, divenute ora più accessibili a causa delle conseguenze del cambiamento climatico.

Ovviamente l’appena citato fronte anglo-americano, ma anche gli altri partner della Nato ci hanno messo gli occhi sopra, a cominciare dalla Danimarca che si è fatta notare per una gestione ‘amletica’ dell’ex colonia Groenlandia, terra con ricchissime ‘risorse’ inesplorate e che ancora oggi è l’unico caso di uno ‘Stato’ uscito dall’Ue. O la Norvegia, conosciuto come ‘l’Emirato del nord’ per via delle risorse energetiche fossili del Mare di Barents, che ne hanno trasformato l’economia. Oppure il Canada, che ancora si lascia sedurre dalla leggenda della ricerca di un passaggio navigabile a Nord Ovest.

Dall’altra parte dell’anglosfera e del passaggio a nord ovest c’è ovviamente il passaggio a nord est, oggi conosciuto come Northern Sea Route, circa seimila chilometri di costa tutti all’interno della Federazione delle Repubblica Russe. È qui che troviamo la gigantesca penisola di Yamal, che ospita i progetti di sviluppo dell’export di Gnl lungo la via Artica. Mettendo da parte per un attimo il politically correct, l’intenzione di bloccare questi flussi di oro azzurro, più dell’invasione della Crimea del 2014 da parte dei russi, è la ragione che ha spinto gli Usa a imporre sanzioni a Mosca.

La Russia di Vladimir Putin e la sua ‘dottrina polare’ punta a una politica neo-imperiale, sulla traccia degli zar e poi del ‘piccolo padre’ georgiano del grande nord, considerando l’Artico come il mare della nuova grande Madre Russia 4.0. Questa dinamica continentale di Zar Vlad trova politicamente una sponda inattesa nell’attivismo cinese. Pechino infatti, nella sua discussa Belt and Road Initiative ha inserito un’appendice di Via della Seta polare: e poteva forse trovare un nome più azzeccato di ‘Operazione Dragone Bianco’, che dietro al titolo da film di kung fu cela la propria ambizione di espandersi?

L’obiettivo del Dragone millenario è la Groenlandia e grazie a questa operazione conta di arrivarci: la strategia non riguarda infatti solo le vie commerciali navigabili dell’oceano polare ma ripropone similmente il modello che è risultato vincente in Africa. Solo, Xi Jinping ha sostituito la ‘corsa alla terra’, con una ‘corsa ai ghiacci’ con meta gli immensi giacimenti di rubini, diamanti, oro, zinco e uranio.

Il governo della Groenlandia, uscito dalle elezioni dell’aprile 2018, è ben disposto ad accettare compromessi o accordi pur di staccarsi definitivamente dal controllo di Copenaghen e dall’obbligo di ricevere i 500 milioni di euro di contributi con i quali è vero si assicura un welfare di qualità, ma che ha come contropartita la concessione alla Danimarca dello sfruttamento delle risorse naturali e commerciali dell’isola dei ghiacci.

Il grande gioco dell’artico così come si sta dipanando assomiglia a una puntata della serie Occupied thriller-politico norvegese, da un’idea dello scrittore Jo Nesbø, con al centro una distopia in cui la Russia con la complicità dell’Ue occupa il Paese scandinavo per ripristinare la produzione di petrolio e gas: per evitare che la realtà superi la finzione il parlamento e la commissione europea che usciranno dalle elezioni del 26 maggio dovranno affrontare la situazione con un ruolo più attivo senza lasciare l’iniziativa ai singoli Stati.