Pubblicato su Il Messaggero il 4 febbraio 2021

di Andrea Bassi

La crisi di governo ha lasciato un progetto con milardi evaporati e tante incongruenze

A cominciare dalla cancellazione del piano di stoccaggio della Co2 dell’Eni a Ravenna

Quanto al rinnovo del trasporto marittimo, per ora è rimasta l’elettrificazione dei porti

 

Ci sono miliardi di euro che si sono volatilizzati in poche settimane. Comparti industriali già pronti a far partire i loro investimenti lasciati da un giorno all’altro a terra dal governo. Insomma, il cuci-e-ricuci del Recovery Plan italiano fatto nelle caotiche ore della crisi politica per scongiurare la caduta del secondo governo Conte, ha generato vincitori e vinti. E il progetto, ancora provvisorio che ne è venuto fuori, ha non poche incongruenze. Prendiamo il caso dell’Eni, uno dei più eclatanti. Il Cane a sei zampe aveva presentato al governo un progetto di decarbonizzazione basato sulla cattura e sullo stoccaggio della Co2 nei pozzi esauriti di metano. L’idea era (ma in realtà rimane) di stoccare la Co2 nei giacimenti offshore esauriti al largo di Ravenna. In questo modo si creerebbe il più grande hub al mondo con questa tecnologia. Per stoccare 4 milioni di tonnellate all’anno di anidride carbonica l’investimento previsto è di 1,47 miliardi. Ai quali si devono aggiungere 550 milioni per il trattamento e la compressione della Co2 oltre alle risorse necessarie per la produzione di “idrogeno blu” derivato dal gas. Tutto da finanziare con i fondi europei del Recovery. Ma entrato dalla porta, il progetto è finito in men che non si dica fuori dalla finestra.

«C’è un pensiero unico ambientalista», dice Gianni Bessi, consigliere regionale dell’Emilia Romagna, esperto di temi energetici. «Un pensiero che vede l’Italia come produttore di idrogeno verde nel Mezzogiorno e lo esporta in Germania. Ma non tiene conto dei costi, dei tempi e dei rischi derivanti dalla scelta di un’unica tecnologia. I progetti Eni rientrano negli obiettivi del Green deal europeo, non vorrei che l’obiettivo di qualcuno fosse mettere l’Eni in un angolo». Ed in effetti, nei giorni scorsi, l’Envi, la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha spinto proprio sulla «neutralità tecnologica» ricordando che nel periodo di transizione che dovrà portare all’idrogeno verde, quello blu non può essere escluso come fonte di approvvigionamento. Non solo, la stessa Envi si è schierata a favore della cattura e dello stoccaggio di Co2 che, hanno detto i parlamentari europei, dovrebbe essere una priorità da inserire all’interno dei piani di ripresa e resilienza. Sull’idrogeno verde, quello generato con l’idrolisi dell’acqua attraverso le fonti totalmente rinnovabili, invece, hanno puntato diritte Snam ed Enel. L’Eni però non si è arresa. Manderà avanti il progetto pilota. L’intenzione è di finanziarlo con l’emissione di un green bond. Dall’offshore di Ravenna, restando sempre per mare, a un altro settore illuso e poi tradito dal Recovery: quello del trasporto marittimo.

Anche qui il progetto era ambizioso e rientrava nella strategia green. Il 9 ottobre, nelle prime bozze del Recovery italiano c’erano ben quattro misure per il comparto dei traghetti e delle navi da crociera: un progetto che si poneva l’obiettivo di rinnovo del 20% della flotta di navigazione di continuità territoriale di corto raggio con modelli più sostenibili sotto il profilo ambientale (elettrici, metano, idrogeno); un progetto che avrebbe dovuto consentire il rinnovo e lo sviluppo tecnologico della flotta navale italiana con mezzi altamente performanti in termini ambientali; un progetto che prevedeva la realizzazione entro il 2026 del Piano Nazionale del Cold Ironing, ossia l’elettrificazione dei porti in modo da permettere alle navi da crociera di spegnere i motori e connettersi alla rete elettrica di terra; un progetto, infine, che riguardava lo sviluppo della mobilità a idrogeno. In tutto 3 miliardi di euro finanziati dal Recovery (ai quali aggiungere altri 3 miliardi per l’idrogeno, all’interno dei quali la quota riservata al settore navale non era però precisata). Ma strada facendo le risorse si sono prima diradate, poi quasi scomparse. Il miliardo e mezzo che era stato indicato per il rinnovo delle flotte, nella versione del 29 dicembre del piano italiano è stato ridotto a 630 milioni di euro. Contemporaneamente è stata allargata la platea dei beneficiari, estendendola anche a 60 mezzi della Guardia Costiera. Insomma, i 630 milioni sono diventati una cifra quasi irrisoria, visto che il cronoprogramma parlava della costruzione di 50 navi “private” oltre alle 60 aggiunte della Guardia Costiera. Infine, nel testo inviato in Parlamento l’intervento per le navi è completamente scomparso. Zero, nulla. Ciò, nonostante poco prima il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli avesse promesso agli armatori che non solo i soldi non sarebbero stati ridotti, ma sarebbero anzi aumentati. Promesse da marinaio, si potrebbe dire. Gli aiuti al settore avrebbero dato una mano anche a un campione nazionale come Fincantieri, che le navi le costruisce. «Un errore fatale», lo ha definito Stefano Messina, presidente di Assoarmatori, «perché – ha detto – viene sprecata un’occasione storica di rinnovare la flotta italiana di navi traghetto, di renderla efficace ed efficiente rispetto alle esigenze di rilancio dell’economia nazionale, e di farne una punta di diamante nel quadro della nuova sostenibilità ambientale».

Cos’è rimasto, allora? Sono rimasti i 950 milioni per il cold ironing, l’elettrificazione dei porti per permettere alle navi da crociera di spegnere i motori quando attraccano. Problema sentito. Soprattutto a Napoli i motori accesi in porto delle navi da crociera sono una delle principali fonti di inquinamento della città. Ma la cifra messa a disposizione è, secondo gli esperti, troppo esigua visto che il Recovery prevede l’elettrificazione di tutti i 41 porti italiani. Insomma, per non scontentare nessuno la torta dovrà essere divisa in così tante fette da renderla esigua per l’obiettivo dichiarato. E poi è considerata troppo ambiziosa la data del 2026 per concludere gli investimenti, viste le difficoltà enormi per portare linee elettriche di quella portata al centro di aree altamente abitate come quelle che circondano gran parte dei porti italiani.
Sempre a proposito di porti, a un osservatore attento come il direttore della Svimez, Luca Bianchi, non è sfuggita la disparità di trattamento tra il Nord e il Sud. Nella prima versione del Recovery, nella strategia portuale nazionale erano citati solo due scali marittimi: Genova e Trieste. Una scelta difficile da far digerire dopo aver promesso che almeno il 50% dei fondi sarebbero andati al Sud. Così nella versione finale del provvedimento è stata messa una pezza. Ma la toppa rischia di essere peggiore del buco. I porti del Sud entrano nel piano, certo, ma solo per il turismo e i collegamenti intra mediterranei. Genova e Trieste invece vengono definiti «nodi strategici». Un po’ a sorpresa inoltre, fuori dal Recovery sono rimaste le imprese del riciclo. Le aziende dell’economia circolare, in particolare le imprese del riciclo di carta, plastica e metalli, sono state totalmente ignorate nonostante siano un motore fondamentale della green economy. Di qui la protesta delle associazioni di settore Unirimap, Assorimap e Assofermet: servono, hanno detto, almeno 2,6 miliardi, altrimenti troveremo il modo di ricordare alla politica gli impegni presi. C’è poi il discusso progetto per la creazione di un “cloud nazionale”. Un investimento da 2,5 miliardi per creare una infrastruttura pubblica sulla quale far confluire i dati della pubblica amministrazione. L’obiettivo è una sorta di sovranismo digitale, con l’intenzione di sfidare sul piano dei servizi e dell’efficienza – con quali risultati è tutto da vedere – giganti come Google (che si è appena alleata in Italia con Tim), Amazon o Microsoft. Insomma, all’ombra dei 209 miliardi del Recovery italiano incrociano le lame interi settori produttivi del sistema Paese. Alcuni usciranno vincitori. Altri vinti.

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