Pubblicato su PandoraRivista.it il 24 febbraio 2021

Scritto da Giacomo Centanaro e Lorenzo Mesini

Gianni Bessi è Consigliere alla Regione Emilia-Romagna dal 2014. Esperto di politiche energetiche, è autore di Gas naturale. L’energia di domani (Innovate Publishing 2018) e di House of Zar. Geopolitica ed energia al tempo di Putin, Erdogan e Trump (goWare 2020) e collabora con diverse testate online.

La disamina qualitativa e quantitativa dell’energy mix di un Paese fornisce un dato fondamentale per comprendere la realtà economica – e spesso anche politica – del soggetto che si vuole analizzare. L’utilizzo di determinate risorse energetiche, la collocazione geografica dei terminali delle supply chain e gli Stati toccati da quest’ultima sono dati essenziali per definire la politica energetica di un Paese. Mutando le condizioni politiche può mutare anche la natura degli accordi tra Stati che compongono le filiere dell’offerta e quindi anche la loro articolazione e geografia; decisivi sviluppi o innovazioni tecnologiche possono essere a monte di tali mutamenti. In questa intervista con il Consigliere alla Regione Emilia-Romagna Gianni Bessi, affrontiamo alcuni interrogativi che definiscono il futuro degli equilibri (o squilibri) energetici che interessano l’Italia. Quale formula adottare?


Iniziamo con alcune considerazioni di carattere geopolitico. Lo scorso autunno, tra settembre e novembre ha avuto luogo il secondo conflitto tra Azerbaijan e Armenia per la regione del Nagorno Karabakh, conclusosi con la vittoria azera. L’Azerbaijan è tra i primi tre fornitori di energia (petrolio, gas) dell’Italia, ruolo rafforzato dal completamento del gasdotto Tap. Ma se la guerra avesse avuto un esito diverso e aree chiave per l’approvvigionamento energetico italiano fossero state interessate dagli scontri, l’Italia avrebbe dovuto probabilmente affrontare difficili scelte politiche. Quali sono a suo avviso altri conflitti che potrebbero compromettere forniture energetiche al Paese?

Gianni Bessi: La storia fatta con i se è un esercizio affascinante ma anche sterile sul piano pratico. E la realtà è che in epoca di Covid-19 il gas naturale è una delle materie prime più importanti al mondo, protagonista di una vera e propria rivoluzione nel campo dell’approvvigionamento energetico. Rispetto al conflitto nel Nagorno Karabakh, è buona norma non focalizzarsi solo sui luoghi da cui partono o arrivano i gasdotti, perché gli equilibri geopolitici si giocano in ogni terra che attraversano. Un esempio è la rotta del gas che va dal Caucaso ai Balcani, dove stanno salendo alla ribalta nuovi leader e inediti protagonisti. La Georgia, per esempio, mentre cerca di chiudere accordi con la Russia, per metter la parola fine a una lunga stagione di tensioni porta avanti una politica di avvicinamento all’Ue guidata dalla presidente Salome Zourabichvili, già ambasciatrice francese in Georgia e che grazie alla doppia cittadinanza si è potuta candidare a presidente diventando la prima donna a guidare uno stato del Caucaso meridionale, che sta operando per stabilizzare l’area dove transita il Tanap. Così come non è un caso che il South Gas Corridor (Sgc), alimentato dai ricchi giacimenti di Shah Deniz vicino a Baku, capitale dell’Azerbaijan, passando dalla Georgia prima di entrare nella penisola dell’Anatolia per connettersi al Trans-Anatolian Pipeline (Tanap) fino al Trans-Adriatic Pipeline (Tap) faccia un’inversione a U per evitare l’Armenia. In quell’area due grandi nazioni produttrici di gas, Iraq e Iran, stanno cercando uno sbocco continuativo alle proprie esportazioni verso l’Europa grazie al South Gas Corridor. Ammesso che gli Usa lo permettano… E ancora, la Turchia col gasdotto Turkstream conferma il ruolo di crocevia delle rotte del gas dal Caucaso al Mar Nero, dalle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate fino al Mediterraneo orientale e ai contesi giacimenti di Cipro, l’isola di Afrodite. Ecco, in sintesi l’Italia deve sempre tenere monitorato cosa succede nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Che opinione ha maturato nei confronti della decisione presa da diversi paesi europei di non consentire attività estrattive dei tanto discussi – per i potenziali effetti ambientali dei metodi estrattivi (fracking) – shale oil e shale gas? In un momento in cui i lavori di messa in funzione di North Stream 2 continuano a essere una questione di grande attrito diplomatico tra Germania e Usa, il bilancio costi-opportunità a livello europeo sulla questione shale potrebbe cambiare in positivo?

Gianni Bessi: Lo shale gas per l’Europa non è un tema all’ordine del giorno perché la stella polare della politica energetica europea è il documento del green deal. Lo è diventato indirettamente però perché è un asset della bilancia commerciale Usa. Anche se a Donald Trump, considerato amico dei petrolieri, è subentrato il più “ecologista” Joe Biden, la contrapposizione è solo apparente: il neopresidente, certo con toni diversi, ascolta i big dell’energia e non sembra voler abdicare alla strategia di energy dominance e alla “guerra fredda del gas” con la Russia che gli Stati Uniti stanno combattendo dopo essere passati da semplici clienti a competitor dei petrostati tradizionali, grazie allo sviluppo della produzione reso possibile dalla tecnologia di sfruttamento dei giacimenti di shale gas. Premetto che personalmente non credo si possa verificare una vera rivoluzione energetica, con il superamento degli idrocarburi, senza un’alleanza e un impegno di risorse, menti, forza politica di Europa e Stati Uniti insieme. Per questo è interessante analizzare le decisioni di tre politici americani diversi tra loro ma accomunati dall’idea di energy dominance Usa: Richard Nixon, Barack Obama e Donald Trump. Barack Obama ha rimosso il divieto di esportazione di idrocarburi dagli Usa introdotto nel 1973 da Richard Nixon, mossa decisa per rilanciare le compagnie petrolifere nazionali e di conseguenza anche l’industria. Donald Trump ha continuato a sostenere una strategia geopolitica aggressiva usando le risorse energetiche, dalle sabbie bituminose al petrolio e, soprattutto, al gas di scisto. È lui che nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione ha dichiarato che gli USA non solo hanno ritrovato l’indipendenza energetica, ma sono tornati anche a dominare il mercato. Con Joe Biden forse muterà la forma, non credo la sostanza perché questo indirizzo appartiene al concetto di “capitalismo politico” di Max Weber, come spiega Alessandro Aresu nel libro Le potenze del capitalismo politico. La dominance è sostenuta da un deep state che è più influente dei mandati presidenziali: sarà interessante vedere come evolverà il rapporto con l’Europa. Il raddoppio del North Stream, che immergendosi nel Baltico dopo 1.222 km sulla terra ferma porterà dalla Russia ulteriori 55 miliardi di mc/anno alla Germania, rientra proprio in questa dinamica di competizione commerciale. Gli Usa stanno mettendo in campo tutti i mezzi diplomatici, a cominciare dalle sanzioni, per far terra bruciata alle imprese occidentali che si dovevano occupare della posa dei tubi. È da oltre dieci anni che gli americani subiscono l’impegno della cancelliera Angela Merkel per sostenere il gasdotto necessario al phase out energetico dal carbone e alla difesa dei suoi finanziatori: la tedesca Uniper, la controllata Basf Wintershall, l’olandese Shell, l’austriaca Omv e la francese Engie.

Nelle ultime due settimane di gennaio (complice anche l’entrata in funzione del Tap), il differenziale di prezzo del gas tra Italia e paesi del Nord Europa si è ristretto a tal punto che per due settimane consecutive, per la prima volta, la Francia ha acquistato gas dal mercato italiano. Pensa che questa dinamica possa essere mantenuta e perdurare oppure che si tratti di un evento congiunturale? Quali politiche potrebbero favorirla?

Gianni Bessi: I grandi player mondiali si stanno muovendo per garantirsi un approvvigionamento consistente di gas, sul commercio dell’energia si stanno decidendo i futuri equilibri internazionali tra i paesi economicamente più avanzati e l’Italia non può permettersi di chiamarsi fuori. Abbiamo le competenze per competere e, soprattutto, un’impresa tra le più grandi e le più tecnologicamente avanzate del mondo, l’Eni, che potrebbe giocare un ruolo chiave in questo scenario. Insomma, per fortuna che c’è Eni, ma dobbiamo meritarcela. Il settore energetico può essere, come è stato in passato, uno dei settori in grado di produrre ricchezza e occupazione per il nostro Paese. E siamo il quinto consumatore mondiale di gas naturale con 73 miliardi di mc/anno e per i prossimi dieci anni tali consumi saranno stabili. Anche qui non gioca il caso, o la fortuna. Ma dobbiamo scegliere senza esitazioni una “via italiana al gas”, da realizzarsi puntando a un mix energetico, pulito e futuribile che ci permetterà di gestire la transizione in maniera efficiente e di produrre, appunto, ricchezza e benessere diffuso su molti territori del Paese. Insomma, se vogliamo essere fra i protagonisti dobbiamo abbattere un ostacolo: quello con noi stessi, cioè dobbiamo essere attori attivi e non quelli che sanno solo dire di no a tutto quando si tratta di casa propria. Per poi magari applaudire quando Eni o le nostre validissime multinazionali tascabili, quali le Pmi che lavorano nei servizi dell’oil&gas, si affermano all’estero. Siamo realisti: è da diversi anni che ancora una volta nel nostro Paese esitazioni e veti incrociati, magari nascosti dietro l’esigenza di aspettare un decreto taumaturgico o una legge quadro, o facili slogan da convegno ma privi di una visione geopolitica e di politica industriale ci stanno escludendo dal numero dei protagonisti della corsa all’oro azzurro. La visione di una strategia energetica fondata sul mix gas naturale – rinnovabili, il ruolo dell’industria e dei servizi industriali nella transizione energetica è ampiamente coerente col green deal dell’Ue, quindi bisogna essere conseguenti: il gas naturale ci serve, le rinnovabili ci servono, le tecnologie per decarbonizzare le industrie più impattanti ci servono.

Vi sono numerose pressioni – anche da parte di consigli regionali – sul Ministero dello sviluppo economiche perché vengano ulteriormente prorogate le concessioni per nuove prospezioni e trivellazioni per la ricerca di idrocarburi nel Mar Adriatico. I giacimenti però, se non vengono rivendicati o sfruttati, troveranno sicuramente qualcuno più disposto a farlo, e sull’altra sponda adriatica i concorrenti non mancano. Come giocare al meglio la partita del gas adriatico?

Gianni Bessi: Alcuni semplici dati. L’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione. Produzione che contribuisce al bilancio attivo di Eni e ai ricchi dividendi per lo Stato e per gli azionisti: ricordiamoci che sono migliaia gli italiani che detengono azioni Eni. Non è poco e per capirlo invito a considerare l’impatto della produzione italiana sul bilancio totale del cane a sei zampe. Eppure, si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre 50 anni. Ed è un controsenso non farlo: l’energia incide in maniera drammatica sul bilancio commerciale italiano e solo nel 2019 ci è costata 40 miliardi di euro. Nonostante questo, l’ipotesi di estrarre il “nostro gas” a km 0 viene combattuta da molti miei colleghi politici. E intanto le importazioni continuano ad aumentare. Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000. E si potrebbe arrivare a molto di più se solo si cominciasse a estrarre il gas naturale italiano dell’Alto Adriatico. Inoltre, l’attività “italiana” di Eni non si limita a estrarre il gas perché coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità.

Parlando dell’area nord dell’Adriatico, vicino alla sua Ravenna, un territorio a cui Lei è particolarmente legato: grazie all’entrata in funzione del terminal di rigassificazione di Adria (Rovigo) è assurto a primaria importanza nella strategia energetica nazionale. Ma vi potrebbero essere ulteriori potenzialità; parliamo del progetto di stoccaggio della CO₂. Perché questo progetto è importante e per quali ragioni sta incontrando degli ostacoli?

Gianni Bessi: La cattura, lo stoccaggio e l’utilizzazione di CO₂ è economia circolare a tutti gli effetti perché interviene sul principale gas serra rilasciato nell’atmosfera dalle attività umane. Mi auguro che il governo Draghi capovolga la decisione del precedente esecutivo e includa nel Recovery Plan il progetto dell’impianto di raccolta, stoccaggio e utilizzazione di CO₂ che Eni ha progettato di realizzare a Ravenna, un investimento da quasi un miliardo e mezzo. Perché non ci sono scorciatoie o strade alternative: la strategia migliore per essere protagonista del Green Deal europeo è seguirne i contenuti: e al carbon capture storage l’Ue assegna un ruolo fondamentale nel cammino verso la neutralità climatica al 2050, soprattutto nei settori in cui è decisivo ridurre le emissioni. Lo ha ricordato il vicepresidente della Commissione europea con delega al green deal Frans Timmermans, una delle massime personalità politiche dell’Ue in questo campo, rispondendo a una interrogazione dell’eurodeputato Mauri Pekkarinen. Insomma, proprio negli stessi giorni in cui Timmermans confermava l’importanza del Ccs per il green deal europeo, il governo Conte 2 dichiarando di volere difendere e seguire il green deal eliminava dal Recovery plan il progetto Eni. I conti non tornano. Invece realizzare l’impianto significherebbe collocare una filiera italiana di imprese specializzata nei servizi alla decarbonizzazione nella parte alta della catena del valore mondiale. La sfida alla decarbonizzazione passa dal ruolo dell’industria e dai “pionieri del clima e delle risorse” come è scritto nel progetto green deal dell’Unione Europea. È tempo di leggere bene questi progetti e di applicarli fino in fondo. In caso contrario, l’unico aggettivo che viene in mente, anche in questo caso, per le scelte italiane è autolesionismo.

In che modo i progetti che gravitano sul porto di Ravenna rientrano nella più ampia strategia industriale e infrastrutturale promossa dalla regione Emilia-Romagna?

Gianni Bessi: Le politiche ambientali efficaci debbono essere coerenti con gli indirizzi dell’Unione Europea, nella fattispecie quelli inseriti nel green deal, scegliendo uno sviluppo che sia coerente con la green economy tenendo insieme la difesa dell’ambiente con la crescita economica, lo sviluppo sostenibile e i posti di lavoro: è un equilibrio non certo facile da raggiungere, ma una strategia ambientale lungimirante ci deve provare. Seguendo queste premesse, Ravenna ha la potenzialità per divenire una piattaforma di green economy di livello italiano e non solo. Il distretto industriale e il porto sono due realtà in grado di rinnovarsi e riconvertirsi sulle attività dell’economia circolare. Ed esistono già basi solide e progetti in via di sviluppo per le attività green. Nel distretto industriale operano quasi 6.000 lavoratori tra diretti ed indiretti in imprese con know how di livello internazionale e alcune di loro hanno già iniziato un percorso di riconversione in termini di green economy. Il porto di Ravenna, con oltre 10.000 lavoratori diretti ed indiretti è uno dei principali scali marittimi italiani: è leader in Italia per le rinfuse, le materie prime per le ceramiche, i prodotti metallurgici e i cereali. E ora grazie al nuovo progetto di hub portuale da 250 milioni d’investimento, finalizzato al potenziamento dei fondali, amplia le sue aree logistiche anche per accogliere le attività dell’economia circolare. A Ravenna esiste una situazione ideale in materia di accordi, protocolli, relazioni industriali e sindacali. Nei campi della prevenzione ambientale, formazione professionale, sicurezza sul lavoro è un esempio positivo di livello nazionale se non europeo. Inoltre, esiste un ambiente “culturale” propizio, grazie a iniziative quali l’Offshore Mediterranean Conference, che è ospitata proprio a Ravenna e che si è profondamente rinnovata: proprio dall’edizione 2021 si occuperà anche di altre forme di energia oltre a quelle fossili, dalle rinnovabili, all’efficienza energetica, dall’economia a basse emissioni di carbonio all’economia circolare. Ravenna, l’Emilia-Romagna e l’Italia hanno tutto per consolidare il proprio ruolo di protagonisti nello sviluppo industriale ed energetico, diventando punto di riferimento per la produzione del mix gas metano e rinnovabili, per le filiere tecnologiche e per la produzione di beni e servizi. Portualità, logistica, settore offshore, settore industriale e dei servizi ambientali, un mix giusto per candidare Ravenna come vera e propria Piattaforma italiana della green economy e del recupero dei materiali.

La prospettiva presentata dal Green new deal europeo offre una visione industriale realistica e coerente con i problemi dell’economia europea? In che misura la narrazione ambientalista prevale sulla realtà dei fatti?

Gianni Bessi: Nelle scienze ambientali ed economiche, la sostenibilità è la condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Vanno benissimo quindi i sacchetti della frutta biodegradabili, benissimo la raccolta differenziata e la riduzione del consumo di plastica. La borraccia, il monopattino elettrico, la spesa nella bottega sotto casa, la condanna del fast fashion, il vintage: il green è diventato trend e ci piace. Tuttavia, in questo periodo di pandemia-polemica stiamo perdendo l’obiettivo: la sostenibilità appunto. Apriamo il giornale e leggiamo titoli come questi: “Senza pc e internet 300.00 studenti”, “Più soli per il virus, allarme dai giovani”, “Più le scuole restano chiuse maggiore è la caduta del Pil”. Non occorre una laurea per comprendere che la gestione della pandemia e il distanziamento sociale avrà effetti devastanti sulle future generazioni. Al netto della speranza dei vaccini e proprio grazie alla fiducia nella ricerca scientifica questo periodo ci deve fare molto riflettere sulle priorità della nostra società “avanzata”. Istruzione, educazione, cultura civica e scientifica, sostegno psicologico, favorire massima diffusione di pc e tablet, internet gratuito, tutela tra le mura domestiche in caso di abusi e violenze (che purtroppo sono all’ordine del giorno): queste dovrebbero essere le priorità per uno sviluppo sostenibile. Stessa cosa come punto forse decisivo nei confronti della transizione energetica e ambientale è che non stiamo giocando una “Blitzkrieg”, serve progettualità e programmazione di interventi possibili. Serve conoscenza, competenze su più livelli: scientifiche, tecniche e umanistiche. Non si raggiunge la “transizione energetica” vincendo a XFactor… Il pericolo è il gap tra i tempi teorici, che diventano spesso retorici, e i tempi pratici che tale dibattito di buone intenzioni su quale visione industriale o meglio di società da perseguire che troppo spesso inonda la comunicazione e la politica nostrana. Serve invece trovare applicazioni pratiche e commerciali delle tecnologie della decarbonizzazione nei principali settori industriali.

La bozza di Recovery plan del governo Conte II è stata fortemente criticata, quali erano i problemi principali che ha riscontrato sul dossier energetico?

Gianni Bessi: Non mi piace il ruolo del pubblico accusatore, soprattutto verso chi non ha più le stellette del comando. Il governo Conte 2 ha dovuto affrontare la prova immane della pandemia e ha scelto la via della mediazione continuata tra tante posizioni e interessi. Ecco, le continue mediazioni servono ma a volte fanno perdere la visione d’insieme. Facile da dirsi ma difficile da praticare in questa situazione politica sempre più scomposta e inconcludente, me ne rendo conto. E lo dico prima di tutto a me stesso. Ecco tornando al dossier energetico c’è una cosa che non capisco nelle posizioni anche del mio Partito, forse per mia impreparazione politica: la politica energetica di Biden va bene, il green deal della von der Leyen anche di più, ma poi quando si tratta di fare le stesse scelte in Italia…vedi l’esempio della cattura e stoccaggio e riutilizzo della CO₂? Ho già spiegato in precedenza cosa dicano i documenti del Green deal europeo. E per quanto riguarda gli Usa Joe Biden, che pure è stato salutato dalle correnti progressiste mondiali, comprese quelle italiane, come presidente della svolta nelle politiche ambientali ed energetiche, come, primo atto ha incaricato la neosegretaria all’energia Jennifer Gramhalm di andare al Senato e di dire che il Gnl (gas naturale liquefatto) e il Ccsu (Carbon capture storage and utilization) della CO₂ saranno parte integrante della transizione energetica della nuova amministrazione. Ecco allora la conferma di come ci si muove nel mondo, mentre la pratica della transizione e della capacità di un sistema industriale di produrre tecnologie concrete sembra non essere recepita da una certa nostra politica.

All’orizzonte, provenienti dal piano di rilancio Next generation EU, si vedono potenziali e irripetibili occasioni di investimento, in che modo il settore energetico italiano potrebbe giovarne? Quali sono, secondo Lei, i principali investimenti strutturali per la rete energetica italiana che dovrebbero avere la precedenza? L’ultima strategia energetica nazionale è stata varata nel 2017. Quali sono le priorità che secondo lei si dovrà prendere in considerazione al momento di formulare la prossima versione?

Gianni Bessi: Spero che la pratica della transizione e della capacità di un sistema industriale di produrre tecnologie pratiche e concrete possa essere recepiti dal Next generation Ue. Dobbiamo confidare in Mario Draghi. La maturità democratica si vede anche nel non credere in figure taumaturgiche, in una politica con la bacchetta magica. Se mi è concesso dare un consiglio a Mario Draghi, è opportuno che non dia per scontato che il consenso da solo basti per assicurargli il successo, che invece verrà dalle scelte che farà. E non saranno tutte facili, anzi. E sarebbe bene se tutti, e intendo proprio tutti, capissimo che la situazione è difficilissima e che occorre metterci a disposizione, ognuno per quello che sa fare meglio. Senza difendere le proprie “narrazioni”, parola fin troppo abusata, per giustificare la linea politica. Ma fuori di metafora, citazioni e comparazioni, è bene che Draghi sappia decidere le mosse giuste per guidarci fuori da questo pantano. Se stesse a me punterei su vaccini a pioggia e metodi più operativi. La campagna vaccinale di massa è il vero primo Next generation Ue. Stessa cosa vale per il neoministero, quello della transizione ecologica, con relativo neoministro che ha per ora collezionato molti giudizi positivi. Ma anche per lui non sarà facile. Il piano nazionale della transizione ecologica ha bisogno di norme pratiche, essenziali ed efficienti: superare lo stallo delle autorizzazioni Via; il decreto su titoli efficienza energetica, i provvedimenti end of waste, l’allungamento della finestra di incentivazione del biometano, il riconoscimento dei certificati di origine su green gas (incluso l’idrogeno), esclusione della doppia tassazione sul power to gas, esclusione degli oneri di sistema sulla produzione di green gas con Ppa di energia rinnovabile in altro sito. E di prendere una decisione coerente sulla produzione nazionale di gas naturale e sull’impianto di Ccsu della CO₂, per trovarci finalmente davvero in linea con il green deal europeo.