Pubblicato su Ilmessaggero.it il 2 dicembre 2021

di Gianni Bessi

Lo scenario globale uscito dalla COP26 di Glasgow, cioè l’impegno per la phase out dal carbone, ha riportato di moda la vecchia, ma mai dimenticata, definizione di “Guerra fredda”.

Io l’ho utilizzata più volte per definire le lotte per accaparrarsi le fonti energetiche, a cominciare dal gas naturale e mi pare che calzi a pennello per descrivere il momento attuale: non solo perché gli schieramenti nei tre grandi mercati – Nord America, Europa e Asia – presentano sistemi politici differenti, democrazie e dittature più o meno mascherate, ma anche perché, come in tutte le guerre, sono le persone comuni quelle che alla fine pagano i prezzi più alti. Insomma, l’incontro di Glasgow un risultato l’ha ottenuto: ha aumentato ancora di più il fattore strategico del gas. Fuori di metafora, l’aumento del costo del metano – scegliamo questo termine per comodità in quanto, come sottolinea sempre Leonardo Maugeri, “il metano è gas naturale, ma non tutto il gas naturale è metano” – sta mettendo sotto pressione la spesa energetica nazionale che è già altissima visto che l’Italia importa la quasi totalità delle risorse, circa 70 miliardi di mc/anno. In Europa il prezzo ha toccato i 100 euro per megawattora: questo nuovo corso sta facendo lievitare le bollette e sta mettendo in crisi anche il trasporto, perché il metano per autotrazione ha registrato incrementi fino al 100 per cento, toccando i 2 euro al metro cubo. Stiamo parlando, secondo i dati forniti da Aci, di circa 1 milione di veicoli circolanti alimentati a metano.

L’ENERGIA DI DOMANI

Il tutto, se solo ricordiamo che l’Italia possiede cospicui giacimenti di gas naturale, può tranquillamente essere definito un paradosso, come ho cercato di spiegare nel mio libro “Gas naturale. L’energia di domani”. Anzi, analizzando il problema nei suoi componenti geopolitici ed economici, ho scoperto che i paradossi legati alla nostra politica energetica sono almeno cinque. Cinque anelli di una catena che ci tiene legati all’importazione della quasi totalità delle fonti con cui produciamo energia e che sarà il vero nodo da sciogliere per il futuro economico e ambientale del mondo. Ecco allora i cinque paradossi del metano in Italia. Il primo è quello ambientale. Per trasportarlo si consuma il 25% del gas stesso, fatto che sommato alle inevitabili dispersioni dei gasdotti produce un incremento del 30% dell’effetto serra. E ricordiamo che la molecola CH4 per accendere il nostro fornello può percorre anche 4500 km dentro ai tubi della Trans-Siberian pipeline. Il secondo, economico, riguarda le tasche degli italiani: una famiglia paga circa un euro ogni metro cubo di gas che utilizza per scaldarsi, fare funzionare gli elettrodomestici e adesso, sebbene non siano ancora molto diffuse, anche ricaricare le batterie delle automobili elettriche. Se invece che “bruciare” gas d’importazione potessimo contare su quello Made in Italy estratto a chilometro zero, il costo a metro cubo precipiterebbe a 5 centesimi. Il terzo è di più ampio respiro, perché riguarda la geopolitica energetica e la sicurezza. E qui ritorna il tema della “guerra fredda” perché attorno al gas le nazioni più energivore e i player del settore stanno mettendo in atto tutte le manovre possibili per aggiudicarsi gli approvvigionamenti. Ultima in ordine di tempo quella che vede protagoniste Bielorussia, Russia e Ue, con la sua frontiera orientale costituita dalla Polonia: il casus belli è il flusso di migranti verso le nazioni europee, con la Bielorussia che ha minacciato di “chiudere i rubinetti” in caso di iniziative sanzionatorie dell’Ue (le pipeline che trasportano il gas russo passano dalla Bielorussia, oltre che dall’Ucraina).

IL BICCHIERE CON DUE CANNUCCE

E poi un dato di carattere generale: la crisi non è dovuta solo a ragioni congiunturali, perché il phase out dal carbone metterà ovviamente pressione sulla domanda di altre fonti, a cominciare proprio dal gas per il quale si prevede un aumento della domanda cinese di 342 miliardi di metri cubi nei prossimi 30 anni, cioè una quantità pari all’intero fabbisogno europeo. Il quarto ha come protagonisti le nazioni con cui ci spartiamo il mare Adriatico, la Croazia, il Montenegro e la Grecia. In sintesi, mentre noi abbiamo bloccato – in attesa dei ritardi e dei rinvii del Piano per la transizione energetica e sostenibile delle aree idonee,il Pitesai – la possibilità di estrarre il gas dai nostri giacimenti marini, i nostri vicini continuano imperterriti a prelevarlo. Tra l’altro la nostra decisione non comporta nessun beneficio ambientale: riprendendo una celebre similitudine di Romano Prodi, è come se due persone avessero di fronte un bicchiere con due cannucce e mentre una non beve l’altra succhia senza ritengo. E il bicchiere si svuota comunque… Alla fine, ma non per questo è meno importante, arriva il paradosso sociale e occupazionale. L’oro azzurro nel nostro Paese dà lavoro, direttamente o grazie all’indotto, a migliaia di persone: bloccare l’attività porta, come è successo per il distretto nato attorno alla tradizione Agip-Eni di Ravenna negli ultimi a un calo delle maestranze che si ripercuote sull’economia generale. Come si esce da uno, anzi da cinque paradossi? Con la politica che individua una strategia energetica nazionale, nella quale il gas è un elemento irrinunciabile perché è una delle due fonti del mix con cui affrontare la transizione energetica: lo ha scritto la Ue nei documenti ufficiali. Perché allora non costruiamo una pianificazione per i prossimi 10 anni per estrarre 10 miliardi di mc/anno in Adriatico? Sarebbe un’opportunità di crescita per il sistema industriale italiano, garantirebbe approvvigionamenti a costi più bassi e quindi risparmi sulla bolletta. Per risolvere i cinque paradossi basterebbe comportarsi secondo logica: ce la faremo?

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