Pubblicato su Repubblica.it il 10 marzo 2022

di Carlotta Scozzari

Nel 2020 il tasso di dipendenza dell’Unione dal greggio “crude” è stato del 96,2%. Bessi: “Si rischia aumento dei prezzi”

Seguire i flussi di petrolio che dalla Russia arrivano a rifornire il resto del mondo aiuta a comprendere come mai gli Stati Uniti si siano già espressi a favore di un embargo dell’oro nero in arrivo dal Paese di Vladimir Putin e l’Unione Europea non l’abbia invece ancora fatto. “La situazione della dipendenza da energie fossili in Europa è del tutto diversa da quella negli Usa o in Canada, lo sanno tutte le parti in causa. Le cose che si possono fare sono dunque molto diverse. Abbiamo bisogno di diversificare l’utilizzo delle materie prime”, ha, non a caso, dichiarato il 9 marzo il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, rispondendo a una domanda sull’opposizione della Germania a un embargo sulle importazioni di gas e petrolio dalla Russia.

La produzione della Russia

Mosca è il terzo produttore mondiale (gli altri sono Arabia Saudita e Stati Uniti) e il primo esportatore di petrolio. Ne produce 11,3 milioni di barili al giorno, consumandone circa 3,45 e conducendone fuori dai propri confini oltre 7 milioni, soprattutto tramite gasdotti ma anche tramite petroliere. Stando ai dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) che fotografano la situazione a novembre, del petrolio esportato 4,5 milioni di barili raggiungono i Paesi Ocse che si trovano in Europa.

La dipendenza dell’Europa

Stando ai dati Eurostat, il 26% circa del petrolio importato dall’Unione Europea arriva dalla Russia, seguita a distanza da Iraq (9%), Nigeria (8%) e Arabia Saudita (quasi 8%). Più in generale, in una nota diffusa a febbraio, Eurostat evidenziava che nel 2020 il tasso di dipendenza dell’Ue dal petrolio “crude”, “materia prima essenziale per l’industria petrolchimica e per la produzione di carburanti per i trasporti”, è stato del 96,2%, molto elevato per quanto in leggero calo rispetto al 96,8% del 2019, quando si registrò la percentuale più alta dal 1990.

La situazione dei Paesi europei

I dai Iea indicano la dipendenza percentuale dalla Russia dei singoli Paesi rispetto alle importazioni di petrolio degli stessi: Italia e Francia presentano la stessa quota del 13%, la Germania sale al 30%, mentre Finlandia e Lituania registrano rispettivamente l’80 e l’83 per cento%. Gli Stati Uniti presentano invece una piccola percentuale di dipendenza dalla Russia, nell’ordine del 7 per cento.

Il caso dell’Italia

I dati sulle importazioni di petrolio greggio dell’Unem (Unione energie per la mobilità) consentono di entrate nel dettaglio dell’Italia: a fine novembre il 10% arrivava dalla Russia, rispetto al 22,3% dell’Azerbaijan, al 18,5% della Libia, al 14,7% dell’Iraq e al 10% dell’Arabia Saudita, citando i Paesi con una incidenza a doppia cifra. Da notare che la percentuale di greggio importato dalla Russia è diminuita di quasi il 2% rispetto allo stesso periodo del 2020.

L’annuncio di Eni

Nel frattempo Eni, il colosso petrolifero e delle energie rinnovabili a partecipazione pubblica, ha comunicato di avere “sospeso la stipula di nuovi contratti relativi all’approvvigionamento di petrolio e prodotti petroliferi dalla Russia”. Questo significa che il gruppo italiano guidato da Claudio Descalzi non interromperà le forniture già in corso.

Gli effetti di uno “stop” a Mosca

Come sottolinea l’analista del settore energia Gianni Bessi, “tra i concetti chiave da tenere in considerazione nel mercato degli idrocarburi, c’è quello di capacità produttiva inutilizzata, ossia la differenza tra produzione e consumi effettivi. Ecco, se immaginiamo di eliminare la quota russa, in un contesto globale di produzione già calata negli anni, l’aspettativa immediata è che si assottigli la capacità produttiva inutilizzata, che nella pratica rappresenta le risorse immediatamente disponibili in caso di interruzioni delle forniture”. Questo, prosegue Bessi, “potrebbe comportare difficoltà nel reperire una materia molto flessibile, che non viene utilizzata soltanto nei trasporti, con un annesso possibile aumento dei prezzi”. E il prezzo del petrolio, negli ultimi tempi, proprio in conseguenza della guerra in Ucraina, è già balzato oltre 110 dollari al barile (sia per Brent sia per Wti).

Cosa faranno gli Stati Uniti

Come visto, la percentuale di dipendenza degli Stati Uniti dalla Russia è minima. E la cosa fa pensare a buona parte degli esperti e degli analisti che per il Paese di Joe Biden non sarà difficile guardare altrove per sostituire il petrolio di Putin. Il Washington Post, per esempio, riferisce che una piccola raffineria delle Hawaii ha spiegato che avrebbe smesso di acquistare dalla Russia per rifornirsi da Nord e Sud America.

Il ruolo di Cina e India

Nel frattempo, è possibile che Mosca riesca a “piazzare” almeno parte del petrolio invenduto alla Cina, alla quale già nel 2021 ha ceduto 1,6 milioni di barili di “crude” al giorno (15% dell’import della Cina, alle spalle soltanto dell’Arabia Saudita). Analisti e addetti ai lavori indicano anche l’India come possibile acquirente dell’oro nero che arriva da Mosca. I due Paesi figurano, del resto, tra coloro che si sono astenuti nella votazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.