di Gianni Bessi 

Pubblicato su Corriere Imprese del 28 settembre 2015 

I quesiti referendari promossi da alcune Regioni per abrogare due articoli del decreto Sblocca Italia, il provvedimento voluto dal Governo Renzi e con il quale la ricerca di petrolio e gas nei mari italiani era dichiarata strategica, avrebbero un impatto negativo sull’economia e l’occupazione. Va detto senza mezzi termini, quali sono i reali impatti sull’offshore in Adriatico, che dovrebbe fare riflettere chi vuol mettere lo sviluppo contro l’ambiente, gli investimenti contro la natura.

In primo luogo l’occupazione: Come sottolinea l’imprenditore ravennate, Renzo Righini, titolare della F.lli Righini azienda leader nel settore offshore e Presidente dell’Offshore Mediterranean Conference, un’iniziativa internazionale ospitata a Ravenna che la scorsa edizione ha richiamato 21mila operatori e 687 aziende da tutto il mondo: «qui non si tratta dell’arricchimento mordi e fuggi di qualcuno ma di tanti posti di lavoro, che durano anni. In questo campo gli investimenti sono ingenti per cui bisogna avere un quadro certo di riferimento. In cambio quando un investimento è fatto produce i suoi benefici effetti per almeno 20/30 anni, caso Ravenna docet. Con lo sviluppo di un giacimento off-shore si sviluppano anche tanti posti di lavoro altamente qualificati e duraturi».

Il voto referendario, dunque, sta preoccupando molto gli operatori del settore, le cui maestranze stanno manifestando per difendere il proprio lavoro. Soprattutto sono in difficoltà le piccole e medie imprese dell’indotto, perché le grandi compagnie dell’oil&gas comunque possono ottenere licenze di sfruttamento di giacimenti all’estero. Il rischio è che entrino in crisi decine di subcontrattisti italiani, con un conseguente declino economico e lavorativo dei territori. L’Adriatico ospita 62 Concessioni di coltivazione idrocarburi, che utilizzano 114 piattaforme offshore per un totale di 630 pozzi. Nel tratto di mare italiano, l’industria di estrazione di idrocarburi impiega oltre 10.000 addetti, direttamente o nell’indotto.

In secondo luogo il doppio vantaggio di cui godrebbe la Croazia, che ha già praticamente assegnato le concessioni di estrazione di gas in Adriatico – appropriandosi in esclusiva di una risorsa comune – ed è impegnata nella riconversione dei porti di Rjeka e Ploce, i quali si stanno attrezzando per diventare hub dedicati all’industria e alla logistica petrolifera, facendo concorrenza ai porti italiani.

In terzo luogo il rispetto per l’ambiente e lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi non sempre sono in contrasto. L’esempio per me più calzante, ovviamente, è quello della mia regione, l’Emilia-Romagna, che possiede un distretto offshore, leader nel mondo, che si estende da Piacenza alla costa adriatica. Un elemento storico a sostegno di questa tesi: la prima piattaforma di estrazione in Adriatico, la Ravenna 1, è diventata operativa nel 1960, ma questo non ha impedito – in questi 55 anni – alla riviera romagnola di sviluppare uno dei distretti turistici più importanti d’Europa.

Infine, un dato che fa riflettere. Nel 2014 la produzione di idrocarburi in Adriatico è stata di 4,3 mtep, quando a fine anni ’90 era oltre i 12 miliardi. È un calo progressivo che se proseguirà senza ulteriori investimenti porterà a un azzeramento della produzione e, di conseguenza, dell’occupazione. Invece, la produzione e l’occupazione del settore – così come anche il contributo alla Bolletta Energetica Nazionale e alla Fiscalità – aumenterebbero se, in ossequio alla Strategia Energetica Nazionale, verranno realizzati gli investimenti proposti dalle compagnie petrolifere: si tratta di 20 progetti per oltre 4,8 miliardi di investimenti in Adriatico.

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