di Gianni Bessi

Pubblicato su il Foglio.it il

Pubblichiamo ampi stralci del capitolo quarto tratto dal libro “Gas naturale, l’energia di domani” (edito da Innovative Publishing) di Gianni Bessi, 51 anni, che dal 2014 è consigliere alla Regione Emilia-Romagna per il Partito democratico. Bessi è appassionato di geopolitica, argomento che si intreccia con le vicende relative al settore energetico del quale scrive su diversi organi di stampa.

Il gas naturale, l’oro azzurro, è diventata una delle materie prime più importanti al mondo: mentre scrivo è in atto una vera e propria rivoluzione dell’approvvigionamento di energia – essendo aumentate le richieste in maniera drammatica – in cui questa fonte sta ritagliandosi un ruolo preminente.

Per capire la sua portata, basti pensare a quanto questo fenomeno stia incidendo anche sulle mosse geopolitiche. Le reti dei gasdotti sono una delle priorità delle strategie nazionali: dal North Stream, al Turkstream e al Power of Siberia, dalle reti che collegano Giappone, Cina e India con la Russia, per arrivare alle modalità di trasporto del Gnl (Gas naturale liquefatto) americano. In particolare, la Cina punta sull’oro azzurro per raggiungere l’obiettivo urgente di ridurre l’inquinamento atmosferico. Non a caso il presidente cinese Xi Jinping vuole ottemperare agli accordi della COP21. Gli Stati Uniti, dall’alto della loro potenza economica, hanno ricominciato a esportare gas naturale e petrolio grazie alla produzione mediante nuove tecnologie non convenzionali (shale, fracking), facendo saltare gli equilibri dei rifornimenti mondiali.

In Italia c’è la tendenza a tirarsi fuori dalle strategie internazionali dell’energia, e la vicenda del gasdotto Tap lo dimostra

Forse gli Stati Uniti stanno cercando di bilanciare la perdita di competitività mondiale nel settore manifatturiero, ormai a favore di Cina e India, acquisendo una posizione di primo piano nel mercato dell’energia e, in questo modo, accrescere il valore delle esportazioni. In questo settore, la potenza competitiva del colosso a stelle e strisce deriva dalla riduzione dei tempi di percorrenza delle gasiere verso l’oriente grazie all’allargamento del canale di Panama. La nuova strategia messa in campo dall’Amministrazione Trump sta mettendo in difficoltà il grande produttore mondiale di gas naturale, la Russia, che sta cercando di stringere nuove alleanze e di consolidare quelle storiche, ma che deve comunque fronteggiare importanti cambiamenti di scenario. Infatti, ha iniziato a trasportare il gas naturale via mare e non solo con le pipeline, alle quali comunque non ha rinunciato tanto che sta incrementando questa rete in modo significativo.

La concorrenza ormai gioca a tutto campo e non è solo una mia convinzione che il mercato del gas naturale cominci ad assomigliare a quello petrolifero dove sono i prezzi e non la geolocalizzazione a determinare il valore delle transazioni. Questa partita vede in campo molti giocatori fra i quali la Cina, i cui piani energetici legati a questa fonte sono già stati predisposti: visto che da oggi al 2030 è previsto che la domanda di gas naturale raddoppierà, al fine di soddisfarla, i Cinesi hanno firmato un accordo con la Russia per l’utilizzo della mega pipeline Power of Siberia che permette di trasferire fino a 61 miliardi di mc di gas naturale all’anno. Ovviamente, questo fiume energetico non è sufficiente a soddisfare tutto il fabbisogno di energia del grande paese orientale, ma qui entra in gioco lo shale gas statunitense che l’Amministrazione Trump – e prima di lui quella di Obama1 – ha deciso di mettere in commercio. Evidentemente, su questa scacchiera, l’India non sta a guardare: il gas naturale russo fa gola anche all’altra grande tigre asiatica e il suo governo si è mosso per aggiudicarsi una parte dei flussi di approvvigionamento.

Sono molti i protagonisti e altrettante le storie che si intrecciano grazie ad un comune denominatore: la produzione e la commercializzazione di questa fonte energetica. […]

L’Europa in questo scenario rischia di trovarsi in difficoltà perché la Russia non avrebbe più bisogno del cliente europeo – che in questo momento consuma l’80 per cento della produzione di Gazprom – se decidesse di spingere il gas naturale verso est. E l’Europa, il vecchio continente, sul palcoscenico che mostra un grande affaccendarsi dei paesi industrializzati per procurarsi gli approvvigionamenti di gas naturale, continua a navigare a vista. Una strategia che, oltre a non essere molto lungimirante, potrebbe provocare difficoltà in futuro. E’ comunque una storia risaputa: l’Unione europea non riesce a muoversi in maniera coordinata sulle grandi strategie di sviluppo perché ogni stato privilegia i propri interessi particolari, le sue esigenze interne, e la Commissione europea non è ancora – lo sarà mai? – un vero governo europeo.

In sintesi, come aveva riassunto benissimo Leonardo Maugeri nel suo volume dal titolo “Con tutta l’energia possibile”, le nazioni europee nella corsa all’oro azzurro sono frenate da alcuni limiti strutturali, primo fra tutti il fatto che il mercato del gas naturale europeo non è di tipo integrato, perché non esiste un’unica rete di gasdotti, ma tante reti nazionali. Se consideriamo inoltre i collegamenti fra i paesi produttori e quelli consumatori, vediamo che sono di due tipi: alcuni possono beneficiare di reti dirette, mentre per altri l’approvvigionamento avviene tramite diramazioni, segmenti di interconnessione o Leg. Questa situazione rappresenta in maniera evidente quale sia il potere dei primi – quelli collegati direttamente – rispetto ai secondi, sia in termini di certezza d’approvvigionamento sia per quanto riguarda i costi. La mancata integrazione comporta anche che chi ha più gas naturale di quanto gliene serva non può rivenderlo a chi invece ne ha bisogno. Si è parlato a lungo di realizzare questa rete, ma finora si è fermi alle affermazioni di principio. Inoltre, l’Europa trae la maggior parte delle importazioni di gas naturale dalla Russia e, in misura minore, da Algeria e Norvegia. L’Ue intende rendere il mercato libero e aperto alla concorrenza, ma il fatto che i fornitori siano così pochi rende pressoché impossibile questo passo. Così l’Europa si trova, non servirebbe neanche sottolinearlo, in una posizione di debolezza. Nonostante quello che ho sintetizzato sia un quadro per forza di cose generale, è comunque sufficiente a comprendere che sul commercio dell’energia si stanno decidendo i futuri equilibri internazionali tra i paesi economicamente più avanzati. Un panorama che vedrebbe coinvolta anche l’Italia se, ancora una volta, esitazioni e veti incrociati non stessero escludendo il paese dal gruppo dei protagonisti della corsa all’oro azzurro, forse anche nascondendosi dietro l’esigenza di aspettare un decreto taumaturgico o una legge quadro.

La concorrenza si gioca a tutto campo e il mercato del gas naturale comincia ad assomigliare a quello petrolifero, cioè guidato dai prezzi

Un esempio di questa tendenza a tirarsi fuori dalle strategie internazionali dell’energia è la vicenda del gasdotto Tap – Trans Adriatic Pipeline, che convoglia il gas dall’Azerbaijan in Turchia, Grecia, Albania e Italia Invece il sostegno al settore energetico è una questione di lungimiranza, perché le persone interessate a un suo successo non sono solo quelle impiegate direttamente – si tratta di oltre un centinaio di migliaia di lavoratori – ma anche quelle che sono impegnate nelle produzioni collaterali – la cui realizzazione continua a essere contrastata dai comitati NoTap della Puglia. E’ un caso esemplare di come in Italia le resistenze territoriali – spesso corporative – siano più forti degli interessi generali. Su questa partita faccio mia un’affermazione del presidente di OMC (Offshore Mediterranean Conference) Renzo Righini: “Non è giusto che poche centinaia di persone, conquistando le prime pagine dei giornali, possano fermare la costruzione del metanodotto Tap, che è una priorità strategica per l’approvvigionamento energetico dell’Ue mentre gli oltre 20mila operatori che si sono ritrovati all’Omc di Ravenna nell’aprile del 2017 per cercare la strategia migliore per assicurare la transizione energetica sembrano invisibili ai media”. […]

Esisterebbe quindi in Italia una quantità di gas naturale ancora sfruttabile, in particolare nell’Adriatico con i suoi campi, le sue piattaforme offshore, i suoi pozzi operativi, le sue centrali di trattamento e di compressione, le sue pipeline a km zero. Il rilancio del Distretto Centro Settentrionale si può attuare con l’incremento di produzione e di investimenti superiori ai 2 miliardi – parte dei 32 miliardi del piano industriale quadriennale di investimento totale Eni – con processi di ricerca e sviluppo, con l’avvio del piano di decommissioning e di reprocessing 3D su 10.000 chilometri quadrati dell’Adriatico.

Questi sono i primi importanti passi da compiere. Grazie all’utilizzo del Green Data Center – il centro di super calcolo di cui abbiamo parlato riguardo a Zohr – proprio il reprocessing può riservare grosse sorprese. L’analisi del potenziale minerario, le analogie sulla conformità della zolla geologica adriatica con i campi come Zohr e i risultati preliminari incoraggiano l’identificazione di un ulteriore potenziale minerario nell’area.

Quindi, lasciamo lavorare i “cacciatori delle rocce” e, se i risultati da incoraggianti diventassero eccezionali, domandiamoci che decisione prenderemmo come sistema Italia di fronte alla possibilità di incrementare la produzione di gas naturale e di conseguenza ridurre la quasi totale dipendenza energetica dall’estero con tutte le conseguenze già espresse.

Tale scelta, oltre alla politica energetica nazionale, richiama un tema di interesse e di sicurezza nazionale. In questo contesto, nel tratto di mare italiano, l’industria upstream coinvolta nell’attività di estrazione impiega migliaia di addetti, sia nell’attività primaria sia nell’indotto, coinvolgendo molte realtà produttive nel massimo rispetto delle regole, delle norme sulla sicurezza e dell’ambiente.