Pubblicato su StartMagazine.it il 7 settembre 2020

di Marco Dell’Aguzzo

E’ un’ipocrisia – come fanno molti in M5S lodare le attività estere di Eni e poi si ostacola lo sviluppo del gruppo in Italia. Il parere di Gianni Bessi, consigliere regionale del Pd in Emilia Romagna e autore dei saggi Gas naturale. L’energia di domani e di House of Zar

Si era parlato di un emendamento al decreto Semplificazioni – poi ritirato – che puntava a bloccare le cosiddette “trivelle”. Agendo in questo modo, tra continue minacce di stop, non si rischia di penalizzare ancora di più le risorse oil & gas italiane e di accrescere la dipendenza dalle importazioni?

Purtroppo sì. Il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI) è stato votato dal governo Conte I e rappresenta l’indirizzo del Movimento 5 Stelle (prima di Luigi Di Maio, poi di Stefano Patuanelli). È stato prima approvato con la complicità e l’ipocrisia della Lega di Salvini, mentre oggi viene perpetuato con la complicità del Partito Democratico. I continui rinvii e i tentativi di inserire ulteriori emendamenti fanno capire che la strada sia politica che normativa del PiTESAI è completamente sbagliata, se non fallimentare. E comporta il congelamento delle attività di sfruttamento degli idrocarburi: non soltanto nel mar Adriatico, ma anche in Basilicata e in Sicilia.

Quanto pesa l’energia sul bilancio commerciale italiano?

L’energia incide in maniera drammatica: solo nel 2019 ci è costata 40 miliardi di euro. Tuttavia la produzione italiana viene combattuta da molti dei miei colleghi politici e le importazioni continuano ad aumentare. Se la produzione italiana si blocca, bisogna pensare non soltanto alle implicazioni energetiche per il nostro Paese, ma anche a quelle finanziarie di Eni.

Cioè?

I ministri del Movimento 5 Stelle dicono di voler garantire e difendere gli interessi di Eni: si pensi alle tensioni marittime tra Turchia e Cipro in un’area dove sono presenti blocchi di Eni, oppure a tutta la vicenda libica. E tuttavia l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione. Non è poco: invito a guardare l’impatto della produzione italiana sul bilancio del Cane a sei zampe. E si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, come avviene da oltre 50 anni.

Non è un controsenso lodare le attività di Eni all’estero, ma ostacolarle in Italia?

Meglio ancora: è una grande ipocrisia. Bisogna domandarsi perché non si delinei una programmazione per la produzione di gas naturale in Italia nei luoghi già preposti. Quei luoghi, cioè, in cui Eni possiede già delle concessioni e nei quali l’azienda due anni fa presentò un piano di investimenti, individuando peraltro strutture già presenti. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione nell’Adriatico da meno di 40mila barili equivalenti al giorno ad oltre 100mila. E cosa dire dello sviluppo tecnologico? Quello che rende Ravenna uno dei siti più adatti al mondo per un progetto di CCS per la cattura e lo stoccaggio della CO2 è proprio la vicinanza tra le fonti di emissione della CO2 ed i giacimenti esausti che ne consentono lo stoccaggio. Nei fatti, aumentare la produzione di gas a Ravenna con questo progetto significa produrre metano ad emissioni zero per il bene del nostro Paese e del mondo.

Questo basterebbe a cancellare la dipendenza italiana dalle forniture estere?

No, intendiamoci. Ma dobbiamo tener conto del fatto che l’Italia è il quinto consumatore di gas al mondo, e che oggi si affida ai contratti per le importazioni dalla Russia, dalla Libia e dall’Algeria. Non è escluso che, in futuro, possano verificarsi degli shock relativi all’approvvigionamento energetico.
Il gas naturale, tra l’altro, riveste un ruolo centrale nei piani energetici italiani ed europei, in sinergia con le rinnovabili.

Questa è un’altra grande ipocrisia: si decide di puntare sul gas ma si pensa solo alle importazioni. Peraltro il gas nazionale a km zero ci consentirebbe di abbassare drasticamente le emissioni, oltre a generare risparmio per il Paese e creare migliaia di posti di lavoro di qualità al riparo da tensioni. In Italia le riserve le abbiamo, ma bisogna fare una scelta: o si sceglie di non sfruttarle, prendendosi però anche le responsabilità (le conseguenze per il bilancio dell’Eni e per i lavoratori); oppure si stila un programma di sviluppo di 10-15 anni. Guardiamo all’esempio norvegese, per soddisfare chi vuole esempi politically correct.

Sulle fonti rinnovabili, invece, qual è la situazione?

Non bisogna dimenticare che replicare casi come quello della Danimarca ad esempio, dove la ventosità è molto alta, è difficile. Lo stesso discorso vale per il fotovoltaico e per l’idroelettrico. Le rinnovabili, poi, sono fonti intermittenti: occorre dunque garantire una potenza costante. La nostra è una società energivora, prima ancora che digitale. Non possiamo pensare alla nostra quotidianità senza l’energia fornita dagli idrocarburi. Solo una nuova tecnologia – che non esiste – può permettere di superare questa fase. Si può anche dire che bisogna abbandonare gli idrocarburi, ma bisogna tenere conto del fatto che questi producono una parte del bilancio dello Stato: tutte le volte che si mette un’accisa sul diesel, ad esempio, il bilancio statale diventa un po’ più dipendente dagli idrocarburi.

Quali sono gli aspetti principali sui quali l’Italia dovrebbe concentrarsi, secondo lei?

Oggi bisogna ragionare su due punti. Il primo: abbiamo, in Italia, la possibilità di produrre gas naturale, che ci permetterebbe non soltanto di creare nuova occupazione di alto livello, ma anche di partecipare al grande gioco geopolitico che coinvolge un po’ tutte le potenze economiche e politiche, nel Mediterraneo ma anche nell’Artico. Ricordandoci, però, che non esiste una risorsa che, da sola, ci permetterà di superare il problema del fabbisogno energetico.

E il secondo punto?

Dobbiamo ideare e mettere in pratica delle politiche che non creino disuguaglianze. Se vogliamo incentivare tutto ciò che è green, dobbiamo però tenere conto del fatto che le tecnologie “verdi” sono costose e che non tutti sono in grado di accedervi. Le automobili elettriche, ad esempio, hanno costi mediamente alti.

Qual e può essere il ruolo del Recovery Fund in tutto questo?

Il Recovery Fund può rappresentare l’opportunità – per l’Italia e per l’Europa – per potenziare la rete infrastrutturale dell’energia e per trasformare l’economia in senso circolare, ripensando fin dall’inizio l’intero ciclo di vita del prodotto.